AUTOLESIONISMO: LE CAUSE DEI TAGLI E IL TRATTAMENTO

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L’autolesionismo è un disturbo che colpisce il 6% della popolazione adulta e oltre il 15% degli adolescenti e dei giovani adulti. L’incidenza di tale fenomeno in queste fasce d’età oscilla tra il 15-20%. L’esordio si aggira tra i 13 e i 14 anni. Particolarmente diffuso nella popolazione psichiatrica, si presenta di frequente all’interno dei disturbi di personalità borderline, ma può comparire anche in pazienti affetti da disturbi d’ansia, depressione, disturbi del comportamento alimentare o disturbi di personalità diversi dal borderline. 

L’autolesionismo in adolescenza è associato a depressione, stress, ansia, disturbi della condotta e abuso di sostanze e a relazioni familiari disfunzionali, isolamento sociale e basso rendimento scolastico

“Perché ti tagli?”: le cause dell’autolesionismo

Il quadro delineato mostra chiaramente che il termine autolesionismo è un’etichetta diagnostica che racchiude comportamenti e vissuti anche piuttosto diversi tra loro. Nell’indagare le cause di tali gesti è quindi opportuno cercare di tracciare un quadro variegato, evitando semplificazioni fuorvianti.

Autolesionismo come punizione autoinflitta

In alcuni adolescenti esiste una relazione causale tra l’autocriticismo e i comportamenti di autodanneggiamento. In questi casi i ragazzi con bassa autostima, che si sentono particolarmente in colpa per non essere perfetti o rispetto a qualsiasi cosa che non sia come dovrebbe, scelgono di tagliarsi per punirsi.

Autolesionismo come comunicazione

L’autolesionismo può costituire una forma di comunicazione del proprio disagio. Attraverso le ferite, infatti, la propria sofferenza appare evidente agli occhi degli altri. Questa possibilità in realtà è piuttosto rara in quanto i ragazzi solitamente nascondono i loro tagli, soprattutto in famiglia. Spesso i genitori se ne accorgono solo dopo molto tempo. I primi a saperlo sono gli amici.

Autolesionismo come strategia di coping

L’autolesionismo può costituire una strategia di coping e regolazione emotiva. Di fronte allo stato emotivo indesiderato e vissuto come intollerabile, il soggetto si ferisce cercando di ripristinare uno stato tollerabile. Si potrebbe dire che la messa in atto di comportamenti autolesivi sia un tramutare in sofferenza fisica (quindi più reale e più facilmente gestibile) una sofferenza emozionale che non si sa come gestire. Per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore.

Autolesionismo come fattore di rischio per il suicidio

Si noti, tuttavia, che le condotte autolesive costituiscono fattori di rischio significativi per il suicidio. I comportamenti autolesivi sono maggiormente correlati a storie di tentati suicidi più di qualsiasi altro fattore di rischio per il suicidio (come depressione, ansia, impulsività e BPD). La progressiva desensibilizzazione al dolore fisico attraverso ripetute pratiche di auto-danneggiamento potrebbe favorire la messa in atto del gesto estremo del togliersi la vita.

Cura: su cosa si focalizza la psicoterapia

Nel corso della psicoterapia si lavora sulla motivazione al trattamento e si crea un linguaggio emotivo comune tra paziente e terapeuta, che permetta di ridurre gli effetti delle emozioni negative e aiuti a recuperare e sviluppare strategie utili per tollerare le emozioni negative che sono alla base dei comportamenti autolesionistici e degli stati di malessere generale del paziente. 

I ragazzi che si tagliano hanno un’importante difficoltà nella regolazione delle emozioni che appunto può essere definita disregolazione emotiva. La disregolazione emotiva è l’esito dell’interazione di una predisposizione biologica, del contesto ambientale e delle reciproche influenze e transazioni tra questi due elementi nel corso della vita del soggetto. 
Alla base della disregolazione emotiva c’è una vulnerabiltà emotiva, caratterizzata da tre specifici elementi:

a) una sensibilità molto elevata agli stimoli emotigeni;

b) una reattività molto intesta agli stimoli emotigeni;

c) un lento ritorno allo stato emotivo di base una volta che vi è stata l’attivazione emotiva.

Il lavoro sulle emozioni


La letteratura recente evidenzia l’importanza di intervenire sulle emozioni positive, costruendo un linguaggio emotivo comune tra paziente e terapeuta che sia in grado di ridurre gli effetti delle emozioni negative e aiuti a recuperare e sviluppare strategie utili per tollerare le emozioni negative che sono alla base dei comportamenti autolesionistici e degli stati di malessere generale del paziente. Se coltivate nel tempo, le emozioni positive possono costruire una protezione che consente alle persone di affrontare meglio gli eventi avversi futuri. Guidate da emozioni positive le persone formulano un repertorio più ampio di soluzioni ai problemi.

Il lavoro sulla famiglia

Oltre alla vulnerabilità emotiva, l’elemento ambientale e contestuale che gioca in interazione ad essa per l’instaurarsi della disregolazione emotiva è il cosiddetto ambiente invalidante. La caratteristica dell’ambiente invalidante è la tendenza a rispondere in modo disfunzionale e inappropriato alle esperienze emotive e cognitive del soggetto. Per esempio è frequente ritrovare risposte genitoriali non sintoniche e avversative al mondo del bambino, limitando in questo modo lo sviluppo delle capacità di regolazione emotiva.


L’ambiente invalidante risponde in modo distonico rispetto all’espressione emotiva e cognitiva del bambino, invalidando i propri vissuti con una mancata risposta o con risposte estremizzate e disfunzionali. In altre parole non si riconosce il vissuto emotivo e cognitivo nella sua autenticità.

Spesso si ha una invalidazione dell’espressione delle emozioni e dell’affettività negativa, in cui le emozioni negative e le esperienze dolorose vengono banalizzate, punite, ignorate o attribuite a tratti stabili della personalità o alla mancanza di buona volontà.

L’ambiente invalidante favorisce la disregolazione emotiva poichè non supporta il bambino nell’appropriazione delle competenze di regolazione emotiva.

La creazione di un linguaggio condiviso

In tal senso il lavoro con la famiglia è fondamentale. E’ necessario creare uno spazio in cui la famiglia e l’adolescente si confrontino. Il terapeuta aiuterà l’adolescente ad esplicitare le proprie emozioni e i genitori a comprenderle fino in fondo. Nelle sedute familiari l’attenzione sarà quindi focalizzata a “tradurre” il linguaggio emotivo e i comportamenti dell’adolescente in modo che i genitori siano facilitati ad entrare in empatia con la profondità dei vissuti del figlio.

A volte i genitori, con l’intento di aiutare i figli, in realtà commettono degli errori nel dialogo con l’adolescente che portano quest’ultimo a chiudersi e isolarsi. Il risultato è un aumento della problematica. Spesso, infatti, i genitori sono portati a sottovalutare le emozioni dell’adolescente considerandole appunto tipiche dell’età. Questo anche con l’obiettivo di aiutare il figlio a ridimensionare il problema. Un atteggiamento di questo tipo porta invece a conseguenze opposte. Il figlio, non sentendo il peso delle proprie emozioni convalidato, si sente sminuito e non compreso e questo comporta un aggravamento dello stato emotivo. I figli si sentono così sottovalutati e non visti anche dalla famiglia.

Altre volte i genitori, pensando di aiutare i figli, iniziano a raccontare le loro esperienze e a confrontarle con quelle dei figli. Seppur fatta in buona fede, questa modalità di colloquio è invece deleteria perché di nuovo sviluppa sentimenti di invisibilità nel figlio. Quando l’adolescente racconta le proprie esperienze e si apre vuole che il focus sia su di lui e sulle proprie emozioni. Non vuole confronti, perché questi ultimi sono spesso per lui fonte di sofferenza. Pensiamo ad esempio quanto il confronto con i coetanei sa difficile in adolescenza. Spesso è proprio il confronto la fonte della sofferenza. Gli adolescenti che non riescono a regolare e affrontare le proprie emozioni sono infatti introversi, insicuri. Si sentono “il brutto anatroccolo” del gruppo, sentono di aver già perso. E quindi il confronto per loro è un ambito che rifuggono proprio perché vissuto come minaccioso.

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Dr.ssa Cinzia Frontoni

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